Valle d’Aosta e d’intorni.

Montagne, sole, splendidi laghi e paesaggio mozzafiato. No, non sono le prime parole apparse nella sceneggiatura di Heidi, bensì sono i primi pensieri che ho in mente quando penso al luogo che mi ha ospitato per gran parte della mia vita: la Valle d’Aosta. Dimentico però un ulteriore termine: stereotipi. Quando mi dichiarai in prima superiore la voce girò in pochissime ore e il giorno dopo tutti sapevano che io fossi gay. ”Che c’è di male?”, diceva la gente, “L’importante è che tu rimanga un bravo ragazzo”. Poi arrivarono le classiche domande alle quali ogni ragazzo gay – comunità abitativa grande o piccola che sia – si trova a dover dare risposta. Ciò che stupiva tutti quanti è il fatto che “non si vedeva che fossi gay”. È così infatti. La comunità valdostana è piccola, limitata e nell’immaginario collettivo il gay è correlato alle figure di Platinette, concorrenti del grande fratello e Malgioglio. Si ritiene difatti che l’omosessuale debba per forza essere colui che veste in abiti femminili, provoca e impone la propria sessualità agli altri ostentando tutti i suoi atteggiamenti. Non aiutano i media, non aiutano nemmeno organizzazioni di settimane bianche gay in un territorio limitato dove si sono confermati in realtà gli stereotipi più banali e scontati. Ma parlo di tutto ciò per arrivare a un episodio che mi ha messo di fronte alla realtà. Ero una domenica sera ad Aosta, a bere una birra con il mio migliore amico, etero. Poco dopo vidi passare un’amica di entrambi con un’altra ragazza. Iniziammo una conversazione relativa ai classici argomenti: università, amore, amicizie, Torino.

Per qualche motivo finimmo sul discorso omosessualità e scoprii dunque che la ragazza con cui la mia amica era in compagnia era lesbica. Le chiesi se le andasse di venire al Pride e sfilare insieme e mi rispose in modo secco: “No. Certe cose non le tollero”. Rimasi sbigottito e ancora del tutto incredulo e le chiesi i motivi. Secondo lei il Gay Pride era semplicemente un modo per imporre uno stile di vita che agli altri in realtà non da fastidio. È’ convinta inoltre che il ruolo delle qrag queen e delle travestite sia inutile e in realtà – ai fini di questo “circo” – la presenza di queste fosse deleteria. Io, il mio migliore amico e la nostra amica, come ripeto entrambi etero, rimanemmo di sasso. Non avevamo nemmeno idea se le idee che aveva appena finito di esporre fossero un suo reale pensiero o meno. Dopo poco capimmo che le sue parole corrispondevano ai suoi pensieri e provai a farla ragionare. Il Gay Pride è una manifestazione che porta all’accettazione del mondo omosessuale, è come se fosse una vetrina di un negozio pronta per essere ammirata da tutti quanti. Ovviamente da fuori vedi tutti gli articoli del negozio che lo rendono speciale e differente dagli altri e i negozianti non possono che rendere visibili anche quegli articoli, talvolta un po’ bizzarri, ma così unici nel loro genere. Le ho spiegato che le drag queen sono una sorta di istituzione nel mondo omosessuale, portando avanti la nostra bandiera e che dovremmo essere fieri di avere persone come loro che “ci mettono la faccia”. Per utilizzare un motto molto discusso in questi mesi, su un qualcosa in cui tutti noi crediamo: l’uguaglianza. La ragazza comprende ma sostiene che è meglio che queste persone siano loro stesse nei loro ambienti. Le drag queen e i travestiti? Che stiano nei locali gay, dove sono accettati. Mi sembra di aver già letto questo concetto nei libri di storia dove un uomo, con un forte parlare tedesco, rinchiudeva le persone in distretti per la loro religione, il loro orientamento sessuale o qualsivoglia comportamento che potesse andare “contro la società” in qualche modo. Mi sentivo in qualche modo attaccato da un fratello che decide di seguire i suoi amici solo per ottenerne una labile approvazione.

Non avevo più parole. Le chiesi a quale Pride fosse stata. “Nessuno – mi rispose – li ho visti in TV”.

“Ai posteri, l’ardua sentenza”.

TEDESCO Samuele

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